Balsamico, l'oro nero di Modena

testo Francesca Rabitti
fotografie Alessandro Barteletti
pubblicato su National Geographic Traveler - Primavera 2019 (scarica PDF)

La torre Ghirlandina è come una matita il primo giorno di scuola, la sua punta perfettamente temperata svetta verso il cielo colorandolo di rosa. È così che Modena mi accoglie, e in un attimo i ricordi vanno alla me bambina nella campagna emiliana poco fuori città: quando il vento era di quelli giusti, mia nonna si portava l’indice alla bocca, invitandomi al silenzio. “Senti come gira la Rossa”, mi diceva, riferendosi alla Ferrari che correva in pista a Maranello, a pochi chilometri da noi. Il rombo del motore lo portava davvero il vento, come il fruscìo delle foglie. Nella dispensa della sua cucina, poi, non mancava mai una bottiglietta di aceto, era quello buono del contadino Geppino che viveva sulla sponda di un fiume con i suoi cani. Aveva una piccola botte dalla quale prendeva questa delizia nera che mi riempiva la bocca di sapori e il naso di odori, impossibili da replicare.

The land of fast cars and slow food, dicono, e bastano questi due ricordi fugaci ma vivi più che mai per averne la conferma. D’altronde, si narra che Enzo Ferrari si rifiutasse di sedere al tavolo del suo ristorante preferito se mancava il balsamico.

Quello prodotto dalle acetaie in provincia di Modena e Reggio Emilia è l’unico al mondo a potersi fregiare della dicitura "Tradizionale", oltre a essere tutelato dalla Denominazione di Origine Protetta (DOP) dal 2000. Per ottenerla è necessario che l’acetaia, la vigna, l’uva e il mosto siano certificati dal Consorzio Tutela Aceto Balsamico di Modena che promuove la cultura e la diffusione del prodotto e collabora con la Consorteria con sede a Spilamberto, che forma gli Assaggiatori il cui compito è valutare la qualità degli aceti.

L’Aceto Balsamico Tradizionale deve avere almeno dodici anni, dopo venticinque acquisisce il titolo di extravecchio e può essere imbottigliato solo in una ampolla disegnata da Giorgetto Giugiaro. Tutto il resto è un semplice condimento, oppure il più comune IGP.

D’altronde, in Emilia Romagna l’eccellenza culinaria è sempre stata un affare piuttosto serio: quando nelle famiglie modenesi nasceva una figlia femmina si era soliti avviare una batteria di botti. I venticinque anni della ragazza e dell’aceto avrebbero segnato la maturazione perfetta di entrambi: un’usanza che ancora oggi resiste nonostante il passare del tempo.

La botte come utero che protegge e fa crescere anno dopo anno un figlio frutto di un solo ingrediente, il mosto d’uva. Thomas Raimondi, bottaio, dà vita a queste madri sagge e pazienti. Mi accoglie nel suo laboratorio circondato da vigne assieme al nonno Giuseppe, mastro bottaio. “Ho lavorato come geometra e aiutarlo era un passatempo, poi ho deciso di cambiare e trasformare la passione in attività”. Vederli assieme all’opera è come assistere a un frammento di vita passata, una piccola radio appesa alla parete trasmette musica italiana e accompagna il loro silenzio, il verde appena fuori dalla porta aperta riempie gli occhi. Ogni tanto un gallo si fa sentire. Thomas mi spiega che una batteria è formata da un minimo di cinque botti costruite con legni del territorio: le due più grandi sono dedicate alla fermentazione del mosto, quelle medie alla maturazione e le più piccole – realizzate con legni duri – all’invecchiamento.

Come in una favola per bambini, vengono disposte dalla più grande alla più piccola, dalla quale nasce il balsamico: due litri dopo venticinque anni, partendo da un quintale di uva. È davvero una storia di pazienza, dedizione e sana follia.

Per vedere da vicino quello che da tutto il mondo viene chiamato l’oro nero mi metto in viaggio verso casa Malagoli, la loro acetaia ha 750 botti certificate ed è - come da tradizione - nel sottotetto della casa di famiglia, protetta da un piccolo paradiso fatto di asinelli al pascolo, fiori e vigneti.

Sofia, ventisette anni e una determinazione rara e ammirevole, mi racconta che tutto ebbe inizio quando suo padre Daniele decise di avviare la prima batteria di botti: ingegnere, il balsamico era soltanto una passione e l’aceto era riservato alla famiglia e agli amici. Lei amava stare in acetaia in sua compagnia, perché erano gli unici momenti in cui poteva godersi in maniera esclusiva la presenza di un uomo così impegnato in giro per il mondo. Nel 2015, dopo la laurea in ingegneria, decide che il balsamico sarebbe diventato la sua vita. Da allora, si dedica in maniera esclusiva alla produzione e promozione dell’aceto balsamico DOP: soprattutto i giapponesi e gli americani arrivano qui per scoprire un prodotto che racconta la storia di una terra.

L’entusiasmo di Sofia è brillante e contagioso, quando le chiedo cosa fa la differenza in questo lavoro, non ha dubbi: il cuore.

La curiosità mi spinge a Nonantola, in provincia di Modena, perché voglio conoscere la famiglia Pedroni, molto stimata da decenni. L’azienda agricola con la sua acetaia che risale agli inizi del 1900 è sopravvissuta alle guerre. Impossibile resistere ai piatti tradizionali della loro osteria: qui passavano i cavalli che trainavano i carri in viaggio da Modena a Bologna e si narra che i piloti fossero sempre ubriachi ma gli animali, che conoscevano bene la strada, si fermavano davanti alla porta per riposare e far rifocillare gli uomini.

Ad accogliermi c’è Italo, il capofamiglia. Ha un’espressione burbera e mi dice che quando ci si incontra per la prima volta bisogna presentare il biglietto da visita: il suo sono i numerosi riconoscimenti ottenuti. Lascia trasparire orgoglio e tenerezza mentre mi fa assaggiare il suo balsamico e gli confesso che è sublime. È il figlio Giuseppe a guidarmi nell’acetaia: le botti sono circa 1700, e ha iniziato ad aiutare il papà quando aveva dieci anni. Cosa gli regala un assaggio? Emozione, riflessione, e la scoperta di un piccolo difetto, caratteristica necessaria affinché un aceto sia anche sincero.

Uno dei suoi ricordi più belli è legato all’infanzia, quando ancora bambino andava nell’acetaia, luogo nascosto e misterioso e per questo irresistibile, e con papà Italo facevano i travasi. Ovvero, partendo dalla botte più grande di una batteria prelevavano delle piccole quantità trasferendole in quella accanto fino ad arrivare alla più piccola, custode dell’oro nero.

Il balsamico è legami di sangue, lo sapevo da bambina, ed è sorprendente accorgersi che a distanza di anni è ancora così: un condimento che come un filo sottile unisce una generazione dopo l’altra.

Me lo insegna anche Francesco dell’Acetaia Sereni, che mi dà il benvenuto nel podere di famiglia, un eremo di pace nelle colline fuori città. Qui, dove il traffico è un ricordo lontano e i pendii sono accarezzati dai vigneti, mi racconta che le botti risalgono ai primi del novecento, quando la sua bisnonna Santina, donna di casa sempre pronta a offrire un pasto ai passanti, iniziò a tenere alcune botti di balsamico. Papà Pier Luigi alla fine degli anni novanta acquistò poi una vecchia fattoria, trasformandola in una acetaia.

Sorrido quando Francesco mi racconta che da bambino andava a scuola con una bottiglietta di balsamico nello zaino per poterlo consumare a pranzo: l’aceto è sempre stato parte di lui, e farne un lavoro è stato naturale. Dai tempi di Santina le botti sono cresciute, arrivando a 1800, vederle tutte assieme è incredibile: il sole del tramonto le fa brillare e le loro curve sembrano onde di un mare agitato.

Mentre sto scrivendo esiste un balsamico DOP considerato il migliore in assoluto dagli assaggiatori della Consorteria: l’ultimo vincitore del Palio di San Giovanni, una competizione che ogni anno vede partecipare più di mille acetaie che affidano al giudizio di esperti la loro “creatura”. Il campione in carica vive nella soffitta di una casa di Cavezzo, e ha resistito impavido al terremoto che nel 2012 sconvolse l’Emilia. È arrivato in visita anche l’Ambasciatore di Giordania per poterlo assaggiare e lasciare un ricordo nel libro degli ospiti. Qui le botti sono 55 e vengono seguite da Enzo Bulgarelli e dal nipote Christian, ventisei anni, che sta studiando per diventare Assaggiatore. Ha un che di romantico pensare che nel sottotetto di una casetta di provincia ci sia un aceto che curato da un ragazzo e da suo nonno si sia conquistato il podio più alto. Come un atleta sconosciuto che contro ogni previsione porta al collo la medaglia d’oro.

I miei viaggi finiscono spesso dove la storia inizia, ma forse è proprio così che deve essere, perché le conquiste arrivano sempre e solo dopo un lungo cammino. Mi ritrovo nel cuore di Modena, all’ingresso di Palazzo Ducale. Centocinquantuno scalini e sono nella sede storica dell’acetaia ducale a partire dal 1620. Le sue botti hanno avuto una vita tormentata: vendute all’asta da Napoleone per finanziare le campagne militari, ritornano quasi cento anni dopo con Francesco IV per poi andarsene di nuovo nel 1861. Centocinquantuno – sì, come gli scalini – anni dopo, la Consorteria le riporta simbolicamente al sicuro. Da una finestra bassa vedo il mondo affannarsi, laggiù. La porta invece è un piccolo fortino, chiudibile anche dall’interno, e si dice fosse qui che il duca si rifugiasse in caso di pericolo. La stanza è spoglia, ed è rimasta uguale nel tempo: non ha bisogno di fronzoli, perché il vero tesoro è tornato.

Qui, come fanciulle che riposano, troppo fragili per ricevere visite – il luogo non è aperto ai turisti e mi sento una privilegiata – ci sono infatti quattro batterie di aceto balsamico DOP.

È difficile descrivere l’odore di una acetaia, perché ognuna di esse ne ha uno suo, unico e non replicabile. Ognuna di esse, regala emozioni e immagini diverse. E io qui, chiusa nella torre ovest di un palazzo, vedo quattro principesse addormentate. La favola questa volta insegna che si sopravvive al tempo e alle guerre per ritornare. Le guardo e penso che ce l’hanno fatta.

Sono a casa.


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