testo Francesca Rabitti
fotografie Alessandro Barteletti
pubblicato su National Geographic Traveler - Autunno 2019 (scarica PDF)
È subito dopo una curva che la vedo per la prima volta. Appoggiata dal fato su una montagna di tufo, sembra un regalo della terra, arrivato una mattina di sole e vento dopo una notte di tempesta. Le finestre delle case sono occhi spalancati sul mondo, i tetti cappelli che la proteggono. I suoi dieci affacci, braccia pronte ad accogliere chi è capace di trattarla con gentilezza. Un treno per Roma e poco meno di un’ora di auto mi hanno portata a Calcata vecchia, un minuscolo borgo medievale che domina la Valle del Treja e risale ai tempi degli Etruschi e dei Falisci. Nessuna connessione a Internet all’interno delle sue mura, mi hanno detto. È davvero così: subito dopo aver superato il cartello che indica l’inizio del paese, l’ultima tacca del gestore telefonico scompare, per poi ricomparire se ritorno indietro di qualche passo. Come nelle magie riuscite meglio, questo è un segno. Ritrovare la tranquillità del “prima”, ed è proprio quello che farò abitando qui per cinque giorni. La panchina alla fermata dell’autobus sulla strada provinciale è l’unico contatto col resto del mondo, una volta al giorno.
Voglio conoscere chi ha voluto dare una svolta alla propria vita trasferendosi in un luogo a soli 40 chilometri dalla capitale, eppure così distante. Nel 1935 un regio decreto lo condanna alla demolizione, ritenendolo – erroneamente, si scoprirà poi - poco sicuro a causa del tufo su cui si poggia: negli anni Sessanta viene quasi abbandonato dai suoi abitanti che a poco a poco si trasferiscono nella più moderna Calcata nuova. La sua rivincita arriva una decina di anni dopo con intellettuali, artisti e artigiani che se ne innamorano facendone il loro rifugio e decidendo di viverci, dedicandosi alla loro arte circondati da una solitudine buona.
Due gatti sonnecchiano con le zampe che dondolano giù, lungo un muretto. Sono loro i primi ad accogliermi davanti alla Sala da Tè, assieme a un vento che si insinua prepotente fra le viuzze acciottolate. La sua proprietaria è Gemma: ha una treccia lunga e ordinata, un sorriso discreto, gli occhi che potrebbero essere azzurri o grigi, non sono ancora riuscita a capirlo. È belga e arriva qui nel 1982 con una figlia e i bagagli, alle spalle una vita piena e frenetica, davanti a sé la scelta di cambiare, e la convinzione che per stare bene non si deve avere tutto.
“Il paese era degli anziani, è da loro che ho imparato cosa vuole dire il rispetto. Mi sono rimboccata le maniche e ho iniziato a lavorare in un bar. Poi un’estate sono andata a Parigi, sono entrata in una sala da tè e ho avuto un’illuminazione. All’improvviso ho capito quello che volevo fare: sono tornata qui con una valigia piena di tanti tipi di tè e ho trasformato quella che era la mia casa in un locale”. Mi guardo attorno, ci sono più di 550 teiere su mensole e credenze, una collezione che è un piacere per gli occhi. I tè invece sono più di 170, le miscele vengono preparate da lei così come le torte.
Prima di salutarla le chiedo se ha dei sogni nel cassetto. Si guarda intorno, circondata da teiere che sono macchie di colore. “No”, sorride. Penso al suo viaggio a Parigi e a quel colpo di fulmine arrivato senza preavviso, come tutte le cose migliori.
C’è una rupe che ho scoperto essere la mia preferita, perché sembra ti abbia condotto là dove finisce il mondo, persa nel silenzio e nell’aria tersa. So che ci abita Athon Veggi, e mi ritrovo a invidiare i tramonti che quella vista le regala ogni giorno. Architetto, scultrice, pittrice ed esperta di fama mondiale di egittologia e discipline spirituali, mi accoglie in un atelier-studio, assieme alle sue opere. Sembra un templio e ne sono stregata. Athon beve Cannonau di Sardegna, rosso come le unghie e la gonna a pieghe, mentre mi racconta dei primi anni Settanta, quando dopo la laurea decise di andare in India a meditare. È lì che in sogno le apparve per la prima volta il borgo. “Quando mi sono svegliata ho capito che era qui che dovevo venire: non ho esitato neanche un attimo e mi sono trasferita, eravamo solo in sedici e sembrava di stare in un monastero”.
Assieme a lei vivono quattordici corvi, animali dall’intelligenza acuta, sacri e misteriosi, onorati dalle tradizioni sciamaniche americane e considerati il simbolo della vittoria sulla morte e dell’immortalità. Mi concede il privilegio di poterli conoscere. Basta guardarli accanto a lei per capire che si sono scelti reciprocamente e potrebbero stare solo qui, al sicuro dalla furia del mondo.
“Le è mai capitato di non assecondare i suoi sogni?” Beve un altro sorso di vino, fa una breve pausa. “No. Bisogna sempre avere il coraggio di seguirli”. La luce nel suo sguardo mi dice che ha ragione. Tre ore in sua compagnia sono volate e non è facile salutarla, ma ci sono un’altra donna e un’altra storia che mi aspettano.
Marijcke Van Der Maden vive a Calcata dal 1984, nella casa più piccola del borgo. Nel suo laboratorio realizza bambole a mano, ispirandosi a fiabe e racconti. Mi confessa che un tempo si cenava tutti allo stesso tavolo, nella piccola piazza, e che scegliere un luogo così significhi cibarsi di arte, cultura, artigianato e natura. Allora, non c’era l’acqua corrente e la luce era un lusso. Il gas è arrivato solo tre anni fa. Marijcke è olandese, e sceglie le parole con cura mentre spiega come nel corso degli anni si sia dedicata alla realizzazione di un presepe molto particolare: i suoi personaggi sono gli abitanti del paese, indossano un abito fatto con pezzi di stoffa dei protagonisti in carne e ossa. Una bambola all’anno, per venticinque anni. Un atto di amore per il borgo, e non è l’unico.
La piazza infatti ospita dei troni in tufo, realizzati nel 1986: sono un’attrazione molto amata da bambini e adulti che non resistono alla tentazione di sedercisi sopra e farsi scattare una foto. Il loro creatore è l’artista Costantino Morosin che vive in una casa tutta rossa, come il papillon che indossa. Definisce Calcata un grappolo d’uva dimenticato sulla vigna dove ha trovato ciò che lo nutriva. In passato lavorava all’aperto, in mezzo alla natura, la sua fonte di ispirazione. Dalla sua terrazza la vista toglie il fiato, il verde sottostante del parco del Treja ti acceca.
“Questa è la vera ricchezza, e noi artisti siamo arrivati qui perché avevamo voglia di uno stesso destino”, mi confessa.
L’artista Giancarlo Croce mi aspetta invece a Porta Segreta, il suo atelier. È un uomo elegante, fuma una sigaretta dietro l’altra, parla con pacatezza. Quasi non ci credo, quando mi racconta che nel 1978 ha preso moglie e figli e a bordo di un pullmino Volkswagen ha guidato fino in Afghanistan: un mito, a quei tempi. Due mesi di viaggio e una quantità spropositata di scatti. Vive qui da quarant’anni e non gli manca la città.
“Gli anziani del paese sono la cosa che più mi ha affascinato, quando sono arrivato. Erano persone gentili che incantavano noi giovani con i loro racconti: nelle sere d’inverno si stava davanti al camino con la coperta sulle spalle a bere vino. E poi c’era chi suonava l’organetto in piazza, e si ballava”.
Gli edifici di Calcata spesso nascondono delle grotte sotterranee, ricordo dell’epoca falisca. Porta Segreta ha la più profonda e impressionante, sessantadue scalini che ti riportano indietro di secoli, e ciò che più colpisce è la precisione con cui sono state scavate nel tufo: pareti e soffitto a volta perfetti. Un’opera dell’ingegno umano che colpisce per la sua bellezza.
E di bellezza ne sa qualcosa Paolo Portoghesi, uno dei più importanti architetti e storici dell’architettura. Uomo discreto e cordiale, mi racconta del suo amore per questo luogo che abita da molti anni ormai, e che gli permette di avere un rapporto più diretto con la natura. Il tema dell’ambiente gli è molto caro: è anche un docente universitario, che sente forte il dovere di insegnare quanto l’uomo sia responsabile dei cambiamenti climatici, e quanto possa fare per il pianeta. La sua costante ricerca di armonia si percepisce ancora di più varcando la soglia del suo giardino di tre ettari che ha progettato con la moglie Giovanna, uno fra i dieci più belli d’Italia. All’interno quelli che un tempo erano vecchi fienili oggi sono biblioteche, o meglio, opere architettoniche che tolgono il fiato e ospitano i cinquantamila volumi del Professore. Visitarle è un privilegio, la sensazione di pace che trasmettono quasi commovente. Fuori, oltre il prato con le margherite e gli ulivi che portano nomi di scultori – il più antico si chiama Michelangelo -, ci sono fagiani, cicogne, fenicotteri, pappagalli, gru, asini: sono solo alcuni degli abitanti di questo eden.
Ci sediamo su una panchina che domina il panorama.
Gli chiedo se gli manca Roma. “Mi manca la Roma di un tempo con la sua cultura di prestigio. Quella di Pasolini e Rossellini. Mi piace stare qui, ci vengo a passeggiare ogni giorno: sembra che il paesaggio entri nel mio giardino”.
C’è una forte energia a Calcata, la percepisci in ogni anfratto, in ogni parola di chi la abita da anni e dei giovani che l’hanno scelta di recente come rifugio e opportunità per una rinascita. È delicata e va maneggiata con cura, scoperta in punta di piedi, con rispetto e pazienza.
L’ultima immagine me la regalano Athon, Giancarlo e Costantino: sono seduti in piazza, e penso a quando poco più che ventenni sono arrivati in paese. Sono ancora qui, a proteggere ciò che hanno animato per quasi una vita intera.
Mi affretto, sta arrivando un forte temporale. Da lontano, il borgo sembra svanire fra le nuvole e la pioggia, oltre il finestrino bagnato dell’auto.
Come se fosse ormai un ricordo lontano.
O forse chissà, soltanto un sogno.
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