Il fascino di Parma

testo Francesca Rabitti
fotografie Alessandro Barteletti
pubblicato su National Geographic Traveler - Inverno 2019 (scarica PDF)

Lirica, cibo leggendario e lo charme di una elegante signora sono gli ingredienti della Capitale della Cultura 2020

Parma è una donna elegante e d’altri tempi che si imbelletta una sera d’autunno per una prima al Teatro Regio, dove gli scalini e l’ingresso hanno il tappeto rosso delle grandi occasioni. Rosso come le sue labbra, mentre afferra al volo il soprabito e si affretta per non far tardi.

È la prima immagine che ho di questa città, Capitale della Cultura 2020, capace di autoalimentarsi perché ricca dal punto di vista culturale e gastronomico, ma con un occhio sempre attento al resto del mondo. In occasione di “Parma 2020” le associazioni culturali lavoreranno infatti a stretto contatto con le industrie per migliorarne qualità e vivibilità: i turisti avranno la possibilità di sperimentare più di trecento attività, anche in spazi cittadini inconsueti e magari sconosciuti. Perché la cultura, a tratti e a torto sottovalutata, ha il potere di rigenerare il nostro tempo e renderlo contemporaneo.

Una visita proprio al Teatro Regio è d’obbligo, se non altro per percorrere i suoi corridoi pensando che prima di te, molti anni prima, lo ha fatto anche Maria Luigia, duchessa di Parma dal 1814 al 1847 e moglie di Napoleone. Il Teatro venne inaugurato nel 1829 con la Zaira di Bellini: fu un fiasco clamoroso. I parmigiani rimasero così scottati da questa esperienza che l’opera non venne mai più rappresentata. Giuseppe Verdi invece è il compositore che più ogni altro in assoluto è rimasto nel cuore della città. Diresse soltanto cinque prove di una delle sue opere, ma ogni anno ha un festival a lui dedicato.

Mentre mi avvio verso il complesso della Pilotta studio alcune foto di un altro teatro, costruito al suo interno: il Farnese, e capisco subito perché tutti chiedano di visitarlo. Prima di tutto perché nasce come una sala d’armi dove si svolgevano esercitazioni belliche: ammirandolo nei suoi novanta metri di lunghezza è facile immaginare fantini a cavallo che si sfidano. Poi, perché è una meraviglia per gli occhi: progettato nel 1617 dall’architetto Aleotti per volere del duca di Parma Ranuccio I, ha una forma ad anfiteatro ed è stato realizzato in legno di abete rosso per ottimizzarne l’acustica. Fu inoltre il primo teatro in Europa con i cambi di scena durante gli spettacoli, ed è incredibile pensare che qui in passato vennero rappresentati solo nove spettacoli. Quello che non tutti sanno è che oggi si possono rivivere le emozioni del passato assistendo a concerti. Ho avuto il privilegio di ascoltare le prove di un contrabbassista che si preparava per una serata: nel silenzio assoluto c’erano solo lui e la sua musica, con quell’odore di abete rosso che permeava l’aria. Ho sentito forte il potere della cultura che ha viaggiato nei secoli fino ad arrivare a noi, in un tempo diventato indefinito.

Mi trovo a un passo dal Ponte Giuseppe Verdi che mi guida oltre il torrente che scorre a fianco del centro città. Oltretorrente, è cosi che viene chiamato il quartiere più popolare e storico: uno degli obiettivi di Parma 2020 è anche quello di riportare in auge le sue strade, le radici della città. Il modo migliore per farlo è ammirare l’Ospedale Vecchio: con la sua pianta a croce pare una cattedrale, invece fino al 1926 è stato, appunto, un ospedale. Simbolo di resistenza e distretto della memoria civile e militare, qui nel 1922 le barricate antifasciste fermarono il generale Italo Balbo proteggendo l’edificio e gli abitanti. “Balbo, t’è pasè l’Atlantic mo miga la Perma” - Balbo, hai attraversato l’Atlantico ma non Parma -, dice un detto parmigiano. Oggi sede dell’archivio di stato, in questi mesi si sta preparando per accogliere i turisti con una ricchissima mostra multimediale che racconterà la sua storia e quella del quartiere.

Non posso però soggiornare a Parma senza conoscere un pezzo di storia della città: mi aspetta il marchese Guidobaldo Dalla Rosa Prati, nel suo palazzo proprio accanto al Duomo e al Battistero. Per raggiungerlo attraverso il centro città passando per Strada Farini, meta molto amata dai giovani che soprattutto la sera si ritrovano per un aperitivo. Sono un po’ tesa, perché non sono mai stata ospite di un nobile: cosa dovrò dirgli, e come mi dovrò rivolgere a lui?

Dopo aver varcato la soglia dell’appartamento mi basta la sua stretta di mano per capire che il nome altisonante e il titolo nobiliare molto poco hanno a che fare con quest’uomo accogliente e dai modi semplici: quasi 93 anni e una mente brillante, mi racconta delle sue passioni che tuttora coltiva. Il volo acrobatico – pilota esperto, ha più di cinquemila ore di attività – e l’archeologia subacquea. “Sott’acqua sono morto almeno quindici volte, per poi ritrovarmi a galla, col sole in faccia”, mi dice coi suoi modi pacati. I dettagli delle sue avventure incantano, potresti pensare siano favole se non fosse per due cose: gli album fotografici che mi mostra, a testimonianza della sua incredibile vita in giro per il mondo alla ricerca di mari sempre più profondi e cieli sempre più alti. E i suoi occhi di un raro azzurro limpido: proiettano i fotogrammi delle sue storie, e si capisce che hanno ancora tanto da vedere. Quindici anni fa ha deciso assieme ai figli di ricavare alcuni alloggi all’interno del palazzo per poter aprire le porte di casa sua ai turisti che possono soggiornare qui, in una posizione privilegiata. Se passate davanti al Palazzo, tendete l’orecchio: con ogni probabilità dal balcone al primo piano arriverà musica classica. Immaginatelo nello studio, mentre programma il suo prossimo viaggio.

Parma è anche eccellenze gastronomiche, un vero orgoglio italiano ovunque nel mondo. Giorgio Zambelli, il casaro dell’Azienda Agricola Giansanti Di Muzio mi aspetta per mostrarmi come nasce il Parmigiano Reggiano. L’appuntamento è alle otto di mattina, e scaccio con vergogna un po’ di sonno quando mi accoglie con un caffè dicendomi che la sua giornata lavorativa “non inizia molto presto”: alle sei. Settantotto anni e più di sessanta passati a fare formaggio, mi racconta che non ha ancora smesso di imparare, perché il latte ogni giorno è diverso, e ogni alba è un’avventura nuova. Il Parmigiano nasce proprio alle porte della città, dentro a grandi vasche di rame, il miglior conduttore di calore. Acqua, sale, caglio. Latte e siero. In diverse fasi, con tempi diversi. Con un’unica costante: le mani grandi e forti di Giorgio che mescola, il suo sguardo che non perde mai d’occhio l’orologio perché un secondo in più o in meno fa la differenza.

Quello che ho imparato da lui è che per fare un chilo di parmigiano sono necessari ben quindici litri di latte, e per farne due forme si arriva a dieci quintali. Ma soprattutto, che è vero il detto: “del formaggio non si butta via niente”: in questo caso, si deve – mi dice puntandomi l’indice con convinzione – mangiare anche la crosta, ché le sue scritte non sono altro che il segno lasciato dalla fascia marchiante data dal Consorzio. La stagionatura minima è di dodici mesi durante i quali, ogni quattro, la Commissione si reca nel caseificio per battere le forme con un martelletto: verranno promosse solo se il suono sarà costante in ogni punto. Giorgio ne parla come se fossero figlie. Ha ragione, perché dà loro la vita ogni mattina. Lui, che ama ballare il liscio e ha portato a casa tante coppe.

In questa città non esiste il Parmigiano Reggiano senza il Prosciutto di Parma, così dopo aver salutato Giorgio viaggio verso Langhirano dove mi aspettano i cugini Giovanni e Nicola del prosciuttificio Pio Tosini, uno dei più antichi. Tutto ebbe inizio alla fine dell’Ottocento quando il loro bisnonno Ferrante aprì in paese una drogheria, dove produceva e vendeva diversi tipi di salume. Il nonno Pio decise poi di dedicarsi soltanto al prosciutto, e da allora la tradizione va avanti. Il prosciutto è come l’aceto, ha bisogno della cura dell’uomo, e del rispetto delle tradizioni.

Mi raccontano di essere gli unici a non usare l’aria condizionata per stagionare la carne, aprono e chiudono le finestre a seconda della stagione, e i loro prosciutti riposano sulla tradizionale “scalera” in legno, mentre oggi tutti usano quella in acciaio. Il locale dedicato alla stagionatura è lo stesso degli anni cinquanta: un rettangolo lungo un centinaio di metri, e il suo orientamento non è certo casuale. Qui, a sud della Via Emilia, l’aria viaggia attraverso le sue finestre da monte a valle la sera, e viceversa il mattino. È asciutta e per questo la carne è dolce. Esattamente il contrario di ciò che avviene a nord della Via Emilia dove regna la nebbia, proprio ciò di cui ha bisogno il culatello, un’altra eccellenza di Parma.

Parma, donna elegante d’altri tempi, mi ha permesso di arrivare al suo cuore e conoscerne le debolezze e i sentimenti, mentre si prepara all’anno che verrà. Il suo anno.

Prima di tornare al Regio c’è un’ultima cosa che devo fare: salutare Giacomo che da sessant’anni gestisce il suo “Bar Degustazione Giacomo”. Se si passeggia per le vie della città questa è una tappa obbligatoria. Sempre impeccabile con camicia, gilet e papillon, mi racconta la sua storia incredibile: alla fine degli anni cinquanta si imbarca sulla Andrea Doria, sognando l’America. Arriva a Las Vegas dove lavora come croupier ai tavoli da gioco. “Ho resistito per tre anni, era un lavoro bellissimo ma sfiancante. Sono tornato in Italia e con la Iole, mia moglie, ho aperto questo bar. Era il 1960 e da allora non è cambiato nulla qui”. Gli chiedo se gli manca l’America. “Ma la mia America è qui”.

Sono di nuovo davanti al Teatro, il suo tappeto rosso è pronto ad accogliere piedi scalpitanti che fra poco entreranno per assistere a un’anteprima.

Accanto a me ci sono due amiche, stanno chiacchierando.

“Pronta? E così, si comincia”.

“E quand’è che si finisce?”

“Speriamo mai”.

Anche Parma è pronta, indossa il suo vestito migliore. Fra poco le luci del palcoscenico si accenderanno, e arriverà la musica a scaldare l’aria fredda della notte.


(Tutti i diritti riservati - All rights reserved)

TORNA INDIETRO