Gotland, perla di Svezia

testo Francesca Rabitti
fotografie Alessandro Barteletti
pubblicato su National Geographic Traveler - Primavera 2021 (scarica PDF)

Storia, cultura, enogastronomia e natura selvaggia: l’isola svedese nel mezzo del Mar Baltico rapisce il cuore del visitatore.

La nave taglia l’acqua, silenziosa e precisa come un paio di forbici guidate dalla mano sapiente di un sarto. Si affretta spavalda su questa distesa placida, lasciando dietro di sé schiuma e scompiglio solo all’apparenza indomabili.

A bordo, il vento fresco d’agosto spettina capelli e apre cappotti, mentre gli svedesi mangiano gamberetti con la maionese e si godono il panorama. Sono sul traghetto che da Nynäshamn, il porto a pochi chilometri da Stoccolma, mi sta portando all’Isola di Gotland: seconda isola più grande del Mar Baltico, viene chiamata “la Capri del Nord” per le sue spiagge bianche e la natura selvaggia che rapisce il cuore di chiunque decida di farle visita.

Il mio viaggio inizia a Visby, la città medievale meglio conservata della Svezia e per questo patrimonio UNESCO dal 1995: la sua cinta muraria, chiamata Ringmuren, è alta undici metri e lunga quasi tre chilometri e mezzo. Ha trentasei bastioni e tre aperture in corrispondenza delle sue tre porte originali. In passato è stata un punto di riferimento strategico nel Mar Baltico per tutti i mercanti di Gotland e fu attorno al XII secolo che raggiunse il suo massimo splendore. La cosa più bella da fare è perdersi per le sue viuzze in acciottolato e osservare alcune delle abitazioni tipiche del posto, costruite in pietra calcarea e mattoni, che a quei tempi venivano importati e scelti per mostrare l’agiatezza del luogo. I loro tetti sono due scalinate che si incontrano e puntano verso il cielo e si possono ammirare dalla passeggiata appena dietro la cattedrale di Santa Maria: da lì hai la sensazione di avere tutta la città raccolta ai tuoi piedi.

Indispensabile una passeggiata sul lungomare, sedersi su una delle amache che guardano il Baltico e aspettare che arrivi la sera per andare al pontile. Non importa se fa freddo, né se sta iniziando a piovere: arriveranno ragazzi e mamme con bambini. Si metteranno il costume e faranno il bagno godendosi il tramonto da una prospettiva di certo privilegiata. Tutto questo è il benvenuto che mi regala il primo giorno quest’isola. Il modo migliore per poterla scoprire è noleggiare un’auto e lasciarsi guidare dalle strade poco trafficate: il paesaggio un attimo è brullo e quello dopo offre una vegetazione rigogliosa, i fari vigilano la costa, solitari e indomiti, i mulini a vento fanno da cornice alle pecore al pascolo. Le case in legno sono così belle che devi avvicinarti per controllare esistano davvero. Scoprirò Gotland e Fårö con gli occhi e le parole di chi la vive e ama ogni giorno: i suoi abitanti sono poco più di cinquantamila, mentre d’estate con l’arrivo dei turisti si arriva fino a quattrocentomila persone.

Tingstäde è la mia prima destinazione: un vialetto in ghiaia e in fondo una casa bianca, con porte e finestre rosse. Due enormi bagolari dal tronco possente si stagliano davanti, quasi a proteggerla. Sono arrivata a Graute Gard, la casa d’infanzia di Kjell, che da qui non se ne è mai andato. Vive con la moglie Jenny e i loro quattro figli. Allevano pecore per realizzare articoli in lana, considerata la più preziosa del mondo. Organizzano corsi di cucito e accolgono scolaresche e visitatori in questo piccolo, grande mondo di tremila e seicento acri di verde. Selma, il loro cane da pastore, aiuta Kjell nella gestione delle pecore, animali buffi e affettuosi che si lasciano coccolare volentieri. Jenny cammina scalza, ha gli occhi azzurri e i capelli biondi. Sorride mentre mi racconta di aver cambiato vita ventisette anni fa ormai: qui c’è tutto quello di cui ha bisogno. Sarebbe difficile darle torto.

Gotland è così, un’isola che ti sceglie: arrivi quasi per caso e ti chiedi come hai fatto a vivere senza di lei fino a quel momento. È accaduto anche a Dan Leonette, che abita in una vecchia cascina dove lavora la ceramica. Gli anni Ottanta lo hanno portato qui, il fascino di un luogo in pace col mondo lo ha fatto restare per sempre, facendogli dimenticare prima l’America e poi l’Inghilterra, dove si è formato come artista. Lo osservo lavorare nel suo laboratorio con grembiule, guanti, maschera e casco da saldatore per proteggersi dal fuoco: sembra un alieno in lotta contro il male. Ne esce vincitore, perché da quelle fiamme nascono le sue creazioni. Gli credo, quando mi confessa di essere scappato dagli Stati Uniti perché “Vietnam was not my war” (Il Vietnam non era la mia guerra): già da ragazzo aveva scelto la pace.

Prima di lasciare Gotland puntando ancora più a nord mi aspetta Lilla Bjers, il paradiso di Margareta e Goran che dal 1997 gestiscono con passione e cura quella che quattro anni dopo è diventata una azienda agricola biologica certificata: qui si coltiva (quasi) di tutto: campi e serre a perdita d’occhio con insalata, pomodori, fragole e molto altro che vendono anche al pubblico. Ma la vera sorpresa è Hanna, giovanissima chef di soli 21 anni diventata fra le più apprezzate della Svezia. Lavora per il ristorante dell’azienda, aperto nel 2012. Sorseggiamo un tè in una delle serre e mi racconta di essere stata premiata nel 2018 come miglior chef biologico dell’anno: in cucina con lei lavorano solo donne, mi dice lasciando trapelare una punta di orgoglio.

Mi colpiscono la sua consapevolezza e maturità: per lei cucinare è una missione da portare avanti con determinazione, per insegnare quanto sia importante cibarsi nel pieno rispetto dell’ambiente: il suo menù cambia a seconda di ciò che la terra può offrire. I suoi inizi sono da fiaba, come il luogo in cui lavora: la sua prima maestra è stata la nonna, è cresciuta con lei, e amava stare in cucina a osservarla impegnata ai fornelli. È stato allora che ha capito quanto potesse essere bello prendersi cura degli altri, nutrendoli.

Gotland è questo e molto altro, basta avere la pazienza di lasciarsi guidare dall’istinto scoprendo ogni suo angolo nascosto. Ma la voce del nord è irresistibile e allora è seguendola che mi imbarco nuovamente per approdare a Fårö, appena centotredici chilometri quadrati e un fascino a volte difficile da descrivere a parole. Il traghettatore mi dice che l’ultima corsa per rientrare sarà dopo cena ma se dovessi perderla telefonaci e verremo a prenderti.

Nel 1960 il regista e sceneggiatore Ingmar Bergman approdò qui per la prima volta per studiare l’ambientazione di un suo film, dietro suggerimento di uno dei finanziatori del progetto. Si innamorò alla follia di quest’isoletta: delle sue rocce, del mare e della vegetazione, e cinque anni dopo decise di trasferircisi. Al Bergman Center si può ripercorrere la sua carriera che è cresciuta assieme alla passione per questo luogo divenuto la sua musa ispiratrice. A pochi passi c’è la chiesa col cimitero dove riposa assieme alla moglie Ingrid Von Rosen.

Guidare costeggiando il mare è un’esperienza unica, proseguire anche quando pensi di esserti perso, quando vedi la strada finire, perché è in quel momento che scopri di essere arrivato nel posto giusto. C’è Helgumannen, il minuscolo villaggio di pescatori del diciottesimo secolo: alcune casette di legno disposte in fila guardano il mare assieme a un paio di barchette. Sta qui a ricordare quanto in passato la pesca fosse fondamentale per il sostentamento degli abitanti: attraverso i muri incrostati di salsedine scorgo spazi piccoli e umili, un tavolo in legno, una tovaglia a quadrettoni, perfino qualche soprammobile. Tutto è rimasto come allora, l’atmosfera è così surreale che mi aspetto di veder tornare i pescatori con il bottino della giornata.

Più avanti, un altro villaggio. Un uomo in un capanno sta riverniciando la sua barca, la sua bicicletta fa la guardia all’entrata. Qui le casette sono puntini rossi che si affacciano su un porticciolo: una di queste ha dei sassi a forma di cuore appesi sopra alla finestra. Un altro uomo si è seduto su una panca, apre la lattina di birra – la linguetta che scatta, l’unico rumore che rompe l’aria -, la sorseggia con gusto. Mi chiedo quando sarà pronta la barca nel capanno, e forse anche lui.

Mi spingo verso la spiaggia rocciosa di Langhammars. Qui in seguito all’erosione delle onde si sono creati i rauk, grandi rocce calcaree a forma di colonne. Ce ne è una che pare il profilo di un uomo, lo sguardo perso verso l’orizzonte. Poco distante da me una scolaresca scatta foto, i più temerari provano a scalare un rauk, uno di loro ci riesce e fermo lassù, le braccia aperte come a volersi prendere tutto, sembra un re. Alcune rocce si spingono fino all’acqua, sono molto basse e formano quasi un sentiero: lo percorro ed è come essere in mezzo al mare, lo scricchiolio di passi estranei sulla spiaggia è sempre più lontano, assieme alle voci. Guardarsi attorno e sentire il fiato mancare per l’infinito che quest’isola regala. Aveva ragione Bergman, che da qui non aveva più voluto andarsene: gli alberi imprevedibili, un attimo bassi e quasi buffi, quello dopo alti e imponenti, i paesaggi in bianco e nero spezzati da macchie di colore come il cielo arancione che c’è ora mentre il tramonto saluta la notte in arrivo. L’ultimo traghetto del giorno che mi aspetta. Devo tornare verso sud, ma come si fa a salutare tutto questo. Scorgo il professore richiamare i ragazzi, è ora di rincasare. La mia macchina al parcheggio e la strada verso casa che forse non ricorderò più.


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